Carlisle
Non
persi tempo.
Gridai
a Charlie di occuparsi dei bambini e di Esme e uscii a cercare
Edward.
Stava letteralmente
diluviando e solo i lampi illuminavano il giardino
ormai buio.
Con
il cuore in gola iniziai a vagare nella notte esplorando il grande
prato, cercando ovunque e chiamandolo a gran voce.
Ma gli unici suoni
che sentivo in risposta erano quelli
dell'acqua che batteva ritmica sul terreno e dei tuoni che facevano
rimbombare tutto.
Non
riuscivo a vedere nulla.
Il
vento e la pioggia mi accecavano, mentre nel giro di pochi secondi mi
ritrovai completamente fradicio.
Avrei
dovuto mettermi una giacca o prendere un ombrello ma ero uscito
così
com'ero preso dall'ansia di trovarlo e spaventato dalla sua fuga
così improvvisa e inaspettata.
“Edwarddd”
gridai ancora una volta malgrado la mia voce venisse coperta da un
altro tuono.
Poi
un lampo illuminò a giorno lo staccato che circondava il
giardino,
dividendolo dal bosco che confinava con il retro della casa, e notai
che un asse era caduta. Quando eravamo rientrati era ancora tutto in
ordine, quindi forse era stato il vento o un animale, ma con la
speranza che fosse stato Edward nella foga di fuggire, scavalcai
quell'ostacolo e mi diressi nel sentiero che s'inoltrava in mezzo
agli alberi dietro a casa.
Mi
allontanai pochissimo, forse dieci metri quando un lampo lo
illuminò.
Era
rannicchiato nella fessura di una enorme masso. Con un sospiro di
sollievo corsi verso di lui ma mi bloccai a qualche metro.
Era
terrorizzato, gli occhi sgranati mi fissavano senza vedermi
realmente.
“Edward”
lo chiamai dolcemente avvicinandomi adesso piano per non spaventarlo
ancora di più.
Lui
trasalì nel sentire la mia voce e arretrò verso
il buco nella
pietra alle sue spalle.
“Edward.
Sono Carlisle, sono papà” gli dissi dolcemente
alzando le mani
aperte verso di lui come ad abbracciarlo.
Lui
mi guardava fisso ma non sembrava che mi riconoscesse.
M'inginocchiai
nel fango.
“Edward,
vieni. Vieni da me” gli dissi alzando appena la voce per
coprire
il tuono che adesso rimbombava più piano. Il temporale si
stava
allontanando per fortuna.
“Non
aver paura, non ti voglio fare del male. Vieni a casa. La mamma sta
bene e ti aspetta. Vieni da me” parlai lentamente cercando di
sembrare il più calmo possibile.
Era chiaramente
terrorizzato e non volevo che scappasse nuovamente.
Volevo si avvicinasse, si fidasse.
“Mamma”
ripeté con un singhiozzo come se quella parola avesse un
significato particolare, un gusto amaro.
“Adesso
mi avvicino. E tu mi aspetti. Stai lì fermo che vengo a
prenderti”
dissi dolcemente ma con fermezza, muovendomi con una lentezza
assurda per non spaventarlo.
Lo
vidi rannicchiarsi ancora di più ma non arretrò.
“Alice
ti aspetta” aggiunsi per cercare di calmarlo, facendo un
altro
passo. Se continuavo a parlare forse sarei riuscito ad arrivargli
abbastanza vicino.
“Alice?”
ripeté inebetito.
“Ecco
adesso torniamo a casa da lei. Ha bisogno di te. Devi consolarla,
sta piangendo. Lei ti aspetta... ha paura senza di te. Non puoi
abbandonarla.” ripresi, cercando di convincerlo.
Feci
altri due passi, lentamente… ecco adesso mancava meno di un
metro
bastava allungare le braccia e avrei potuto sfiorarlo.
Lui
mi guardava gli occhi sempre dilatati in maniera innaturale, il suo
cuore che batteva tanto forte da riuscire a sentirlo a quella
distanza.
Anche
il respiro era accelerato assurdamente, e malgrado il freddo lo
facesse tremare potevo vedere il sudore mischiarsi alle gocce di
pioggia che gli colavano dai capelli e dal viso. Era sotto shock.
Quello che era successo lo aveva completamente mandato fuori di
testa, riportandolo a quel maledetto pomeriggio, pensai disperato.
“Alice
ha bisogno di te” gli ripetei ancora mentre facevo un altro
passo.
Lui
mi guardava e guardava le mani tese. Poi un lampo lontano ci
rischiarò un ultima volta ed Edward con un grido strozzato
si girò
per scappare.
Mi
lanciai su di lui e lo atterrai. Veloce lo presi e lo strinsi forte
al petto.
“Sono
io Edward, sono papà. Non aver paura, sei al sicuro. Nessuno
ti farà
del male. Adesso ti porto a casa” gli ripetei disperato.
Sorprendentemente
e per fortuna scoppiò a piangere e mi strinse forte senza
più
tentare di fuggire “Ho paura. Non permettere che mi facciano
del
male ” mormorò fra un singhiozzo e l'altro.
“Stai
tranquillo piccino mio, adesso andiamo a casa. Va tutto bene, nessuno
ti farà del male. Non permetterò a nessuno di
farti del male”.
Mi
alzai e tenendolo stretto fra le braccia ritornai sui miei passi il
più velocemente possibile.
Lui
non smetteva di piangere il volto nascosto nel mio collo, le mani
artigliate alla mia camicia zuppa di pioggia.
Quando
entrammo in casa Esme ci corse incontro. “Edward”
gridò ma lui
per risposta si nascose ancora di più contro di me.
“E'
sotto shock Esme” le spiegai con il fiatone “ ma
dobbiamo
cambiarlo. E' fradicio, rischia di prendersi una polmonite”
Sentivo
il suo corpo gelido tremare e sussultare per i singhiozzi e per il
freddo. Le mani premute convulsamente sulla mia camicia bagnata erano
ghiacciate. Le sentivo sulla schiena come spine gelide che mi
attraversavano la spina dorsale.
“Charlie
occupati dei bambini” disse lei e scattò verso le
scale “Mettilo
sul divano nello studio. Vado a prendergli dei vestiti asciutti e
degli asciugamano” aggiunse sparendo nella sua stanza.
Entrai
nello studio e cercai di posarlo sul divano. Ma non c'era nulla da
fare era avvinghiato a me e per risposta al mio tentativo strinse
ancora di più la presa rischiando di soffocarmi.
Esme
arrivò ad aiutarmi. Lo prese per le ascelle e
cercò di tirarlo via.
Lui
fece resistenza poi, all'improvviso, forse stanco, lasciò la
presa.
Esme
lo abbracciò un attimo a se e poi lo posò
delicatamente sul
divano per asciugargli i capelli che colavano e cambiargli i vestiti
zuppi.
Gli
occhi di Edward continuavano ad essere dilatati mentre spaventato dai
suoi fantasmi iniziò a smaniare per cercare di scappare
dalle
nostre braccia e fuggire nuovamente lontano nella notte.
“Lasciatemi
andare... non fatemi del male... Vi prego... Papà...
Sangue... no...
non voglio...” le sue parole smorzate dai singhiozzi che
avevano
ripreso a scuoterlo mi stavano spezzando il cuore.
Veloci
insieme lo tenemmo fermo e iniziammo a levargli il maglione e la
camicia bagnati e gelidi.
“No.
Non voglio. Lasciatela stare... non fate del male alla mamma. Non
toccatemi...” ci pregava cercando ancora di fuggire.
Ma
eravamo in due e lui pur agitandosi non aveva la lucidità
per
riuscire nel suo intento e nemmeno più le forze.
Come
Esme gli sfilò la canottiera rimanemmo scioccati.
Finalmente
capimmo il perché non voleva mostrarsi spogliato.
Una
lunga cicatrice prodotta da un coltello partiva dall'inizio dello
sterno per scendere sotto la cintola dei pantaloni, mentre un altra
orizzontale e perpendicolare univa i due capezzoli, una terza
parallela gli attraversava l'ombelico da un fianco all'altro.
Per
un attimo trattenni il fiato chiedendomi quale mostro poteva aver
fatto una cosa simile.
Ci
guardammo negli occhi con Esme un attimo poi, senza una parola,
iniziammo a mettergli la maglia del pigiama.
Al
collo, tenuto su da una stringa di cuoio, portava un gettone
colorato di plastica dura bucato nel centro.
Probabilmente,
pensai con un sorriso, era un regalo di Alice che, sapevo per
esperienza diretta, si divertiva a fabbricare gioielli con qualsiasi
materiale le capitasse sotto mano.
Al
sentirsi vestire sembrò rilassarsi un attimo e sdraiatolo
Esme
iniziò ad aprirgli i pantaloni completamente zuppi per
sfilarglieli
mentre io cercavo di tenerlo tranquillo con le carezze.
Come
sganciò il primo bottone lui emise un urlo disperato
“No...Non
fatemi del male... Vi prego no... No...” gridò
iniziando a cercare
di picchiarci per fuggire.
Non
riuscivamo a tenerlo fermo, si contorceva come se gli avessimo dato
fuoco. Urlava come un disperato mentre cercava di mordere le nostre
mani e di graffiarci in viso.
Charlie
attirato dagli urli entrò in quel momento nella stanza
“O cielo”
lo sentì dire a vedere quella scena surreale “ma
cosa...”
continuò con gli occhi sbarrati dall'orrore.
“E'
sotto shock” gli spiegai “tienilo fermo, non farlo
scappare”
gridai sopra i suoi urli disperati mentre correvo di sotto a
prendere la mia borsa da medico. La trovai e mentre passavo di corsa
diedi una vista al salotto.
Alice piangeva
disperata in braccio ad Emmett che cercava di consolarla.
Nella
borsa trovai quello che cercavo, una siringa e una boccetta di
calmante da usare come pronto soccorso per le emergenze.
“Charlie
tienigli fermo un braccio” gli ordinai mentre bagnavo un
batuffolo
di cotone con l'alcool.
Lui
fece ancora più forza sul polso immobilizzandolo mentre io
gli
iniettavo il calmante nella spalla.
Come
ebbi finito Edward continuò ad agitarsi ancora per un paio
di minuti
continuando a pregarci di non fargli male, poi il calmante fece
effetto, lui chiuse gli occhi, smise di dimenarsi ed urlare e sfinito
si addormentò fra le braccia di sua madre.
Spossati
a livello emotivo lo adagiammo sul divano. Aveva diversi lividi sui
polsi e sulle gambe dove avevamo stretto per non farlo fuggire
nuovamente.
Esme
mi guardò sconvolta e pallida mentre piangendo si
buttò fra le mie
braccia.
“Non
ho mai visto una cosa simile” mi disse Charlie con gli occhi
allucinati guardandolo dormire apparentemente tranquillo.
“Io
si.” mormorai. Facendo il medico da tanti anni ne avevo viste
di
tutti i colori.
“Ma perché?”
mormorò Esme staccandosi e asciugandosi gli occhi mentre si
chinava
per sfilandogli le scarpe e i pantaloni.
Mi
affrettai ad aiutarla. Aveva il corpo ghiacciato malgrado le guance
fossero rosse dallo sforzo.
“Credo
che sia tornato a quel giorno” mormorai avvilito.
Quanto
aveva sofferto quel ragazzo?
“Hai
visto i segni sul petto?” mi chiese lei ancora sconvolta.
Annui
e insieme gli sfilammo i boxer zuppi.
La
linea tracciata dal coltello finiva alla base del pene. Per fortuna
il suo apparato genitale era in ordine e intatto.
Tremai
all'idea di quello che probabilmente era successo, del terrore e del
male che aveva subito.
Esme
senza una parola prese nuovamente l' asciugamano che aveva portato e
glielo passò sul corpo e nuovamente fra i capelli poi dopo
avergli
messo il pigiama asciutto lo presi fra le braccia e lo portai nella
sua stanza mettendolo al caldo sotto le coperte.
Il
suo respiro e il suo cuore erano divenuti regolari e lui sembrava
dormire tranquillo.
“Non
durerà molto. L'effetto dovrebbe passare tra un paio d'ore.
Ma spero
che quando si sveglierà sarà di nuovo in
se” dissi guardandolo
preoccupato.
“Andate
da Alice ed Emmett, saranno preoccupatissimi” sentii dire da
Esme.
“Io resto qua con lui, così se si sveglia non
sarà solo.”
Aveva
ragione come sempre e dopo averle dato un bacio fra i capelli, corsi
a cambiarmi, presi un aspirina sperando di non essermi preso una
bronchite e scesi di sotto dove trovai Alice che dormiva esausta fra
le braccia di Emmett sotto lo sguardo protettivo di Charlie che li
aveva raggiunti non appena Edward si era addormentato.
Il
mio piccolo Emmett nel giro di due mesi era diventato un uomo e da
disordinato e infantile era maturato prendendosi cura dei fratelli
più piccoli.
“Grazie
Emmett” gli dissi prendendo Alice e mettendomela in braccio
mentre
gli posavo un bacio in fronte.
“Edward
sta bene?” chiese spaventato.
“Si
Emmett. Adesso sta bene, sta dormendo e la mamma è rimasta a
fargli
compagnia” lui annui, si asciugò gli occhi
cerchiati di rosso e
prese Charlie per mano.
“Giochiamo
con la play?” gli chiese e la sua voce tremava.
Charlie
gli sorrise, si girò verso di me facendomi l'occhiolino e
iniziarono
una partita a tennis.
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