Carlisle
Ero
andato dal mio amico avvocato la mattina dopo.
Gli
avevo spiegato tutto e lo avevo pregato di fare qualcosa, qualsiasi
cosa.
Mi
aveva, ovviamente, promesso che avrebbe fatto tutto il possibile, mi
aveva detto che probabilmente avremmo vinto la causa, che i gemelli
sarebbero tornati a casa, ma mi aveva anche detto che ci sarebbero
voluti almeno un paio d'anni se tutto andava bene.
Mi
ero sentito morire, non tanto per il dolore che provavamo ma per
quello che, ero sicuro, stavano provando i miei gemelli.
La
paura dell'abbandono era dietro l'angolo ed io non volevo che si
abbandonassero ad essa.
La
nostra era una lotta non contro la certezza di riaverli a casa, a
sentire il mio amico, ma contro il tempo che, sapevo, poteva
causare danni irreparabili.
I
giorni passarono lenti e pigri, io tornai a lavorare ma la situazione
peggiorava di ora in ora e non solo per loro.
Il
dolore mi aveva scavato una grotta profonda nel cuore, lavoravo
attento e preciso come sempre, conscio che un mio errore avrebbe
causato dolore ad altri, ma soffrivo.
Ogni
qualvolta vedevo un bambino in braccio alla mamma mi veniva in mente
Edward avvinghiato ad Esme, ogniqualvolta vedevo un papà
tenere un
bimbo per mano pensavo a quando era scappato sotto il letto.
Ogni bambina sorridente mi ricordava Alice, le sue risate il suo sbattere gli occhioni per ottenere quello che voleva, e in ogni negozio di giocattoli la vista di un peluche apriva una fitta al cuore.
Ogni bambina sorridente mi ricordava Alice, le sue risate il suo sbattere gli occhioni per ottenere quello che voleva, e in ogni negozio di giocattoli la vista di un peluche apriva una fitta al cuore.
Ma
non ero l'unico a stare male.
Esme
non aveva più sorriso. Faceva tutto come prima, ma non
sorrideva.
Sapevo
che come me si era calata una maschera sul volto, ma la notte la
sentivo singhiozzare nel buio inerme e impotente di fronte a quella
situazione.
E
il nostro dolore era ampliato da quello di Emmett. Era diventato
insicuro e ogni volta che il campanello suonava lo vedevo sussultare
spaventato mentre non mollava mai neppure per un istante Tigro.
Ci
dormiva, ci mangiava, lo portava sempre con se.
Quando
faceva la doccia, prima di entrare, lo posava sulla mensola del
bagno “Non aver paura Tigro. Non ti posso mettere sotto
l'acqua, ma
arrivo subito” gli diceva serio. Poi quando usciva, ancora
avvolto nell'asciugamano, se lo stringeva a se teneramente come
fosse stato vivo “Visto sono tornato, ho fatto
presto.” lo
rassicurava baciandolo fra le morbide orecchie.
Ci
avevano distrutto e ogni mattina passavo dal mio amico per aver
notizie e ogni pomeriggio gli telefonavo almeno due volte. Avevo
fretta, tanta fretta di riabbracciarli.
“Non
so nulla Carlisle, non ci sono novità è troppo
presto. Ci vuole
tempo” mi diceva paziente e comprensivo.
Ma
non avevamo tempo.
Perché
se noi stavamo male per quell'immobilità nel vedere i giorni
scivolare via pigri ero certo che loro stessero perdendo la speranza
di rivederci.
Anche
Charlie veniva a trovarci tutte le sere.
“Carlisle,
Esme. Li rivedrete, andrà tutto bene. Presto torneranno a
casa, il
tribunale li affiderà nuovamente a voi.” cercava
di confortarci ma
sapeva di mentire, glielo leggevo negli occhi. Lui era fin troppo
cosciente delle lentezze burocratiche con cui si picchiava ogni
giorno per il suo lavoro.
Erano
passati dieci giorni, dieci lunghissimi e tristissimi giorni, senza
avere saputo nulla, senza che una speranza illuminasse il buio del
cuore, quando preso da un impulso irrefrenabile andai
all'orfanotrofio.
Volevo
vederli, volevo salutarli. Volevo assicurarmi che stessero bene, che
non perdessero le speranze. Loro dovevano avere la conferma che ci
stavamo battendo per loro, che non li avevamo abbandonati
là.
E
poi non ce la facevo più a non sapere, a non avere loro
notizie.
Stavo
impazzendo, tutti noi stavamo lentamente impazzendo.
“Buongiorno
signor Cullen” mi disse la Direttrice facendomi accomodare
nel suo
solito ufficio “In cosa posso esserle utile?” mi
chiese cordiale
con un sorriso tirato come se non immaginasse il perché io
fossi lì.
Ma ero sicuro che lo sapesse, glielo leggevo negli occhi, malgrado
fingesse il contrario.
“Voglio
vedere i miei gemelli.” gli dissi senza mezzi termini, senza
girare intorno al problema, senza perdere tempo in futili
convenevoli.
La
vidi sospirare affranta.
“Non
è possibile. Mi spiace” mi rispose cordiale con il
volto triste.
“Ascolti
ho bisogno di vederli, ho bisogno di sapere che stanno bene”
cercai
di spiegarle.
La
vidi scuotere la testa.
“Mi
spiace è contro il regolamento” disse irremovibile.
“Perché?”
sussurrai senza forze.
“Non
pensa che sarebbe peggio?? Se non la vedono finiranno per
rassegnarsi. Così gli creerebbe solo delle false illusioni
facendoli soffrire ancora di più al momento del distacco e
anche lei soffrirebbe di più” mi spiegò
comprensiva.
“Al
diavolo! Come se non avessero già sofferto a causa vostra.
Edward
ha parlato, loro stavano bene con noi” gli risposi esasperato
alzando la voce mio malgrado.
Lei
sospirò comprensiva “Si, forse ha ragione, ma
adesso devono
stare qua. Questo è ciò che ha stabilito la
legge.” mormorò
affranta.
La
guardai e capii, capii che lei la pensava come me, che sapeva di
aver fatto loro del male ma evidentemente aveva le mani legate.
“Lei
…” continuai ma m'interruppe subito.
“Il
Tribunale ha deciso. Non voglio fare del male ulteriore ai bambini.
La consiglio di andarsene e non ritornare più. ”
mi disse con la
voce dura evitando il mio sguardo “per il bene di
tutti”
aggiunse poi in un sussurro.
“Mi
dica almeno come stanno” la implorai.
Lei
mi sorrise addolorata “Non voglio mentirle. Vada a casa, la
prego.
Non mi costringa a darle false illusioni” sussurrò.
Mi
sentii mancare. Non me l'aveva detto ma era come se lo avesse fatto.
Le
mie paure si erano concretizzate. I gemelli stavano soffrendo per la
repentina separazione.
Mi
alzai e mi avvicinai alla porta desolato e sconfortato. Purtroppo
aveva ragione. Se non li avessi potuti portare a casa era meglio che
non mi vedessero, che non si facessero false illusioni.
Poi
colpito da uno strano impulso mi fermai “Le chiedo solo un
favore.
Se vede Edward gli dica che Tigro sta bene, che ci stiamo prendendo
cura di lui” le chiesi.
La
vidi annuire comprensiva “Andrò a cercarlo e gli
riferirò il
messaggio... ma non gli dirò che è stato lei a
darmelo”
Non
protestai, aveva ragione. Dovevano imparare a dimenticarsi di
noi... almeno fino a quando non saremmo riusciti a sbloccare la
situazione.
E
uscito da quel posto che odiavo con tutto il mio cuore mi diressi dal
mio avvocato.
Doveva
esserci un modo... avevo un titolo nobiliare, avevo soldi a palate
volendo, e lui doveva trovare una soluzione, anche a costo di
comprare l'intero orfanotrofio.
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