Carlisle
Eravamo
in casa tutti e i ragazzi stavano giocando sul tavolo a carte visto
che in mattinata era piovuto e ampie pozze ricoprivano il giardino.
Esme
stava allargando un paio di pantaloni di Edward che gli erano
diventati stretti.
Malgrado
si facesse sempre imboccare stava mangiando parecchio e si stava
riempendo a vista d'occhio, infatti erano passati solo nove giorni
dal ingresso dei gemelli in casa nostra.
A
imboccarlo eravamo riusciti a farci accettare entrambi, così
ci
davamo i turni, levando quel peso ad Alice che mangiava più
veloce e
soprattutto di più, mettendo anche lei un po' di grasso nei
punti
giusti.
Io
invece ero seduto a leggere un libro, e controllavo che non
bisticciassero. Non accadeva spesso ma se succedeva bisognava
separarli per “salvare” Emmett che se li trovava
facilmente
alleati contro.
Lui
più grande, in tutti i sensi, con il timore di fargli male
in
genere subiva limitandosi a difendersi ed aspettando che io o Esme
intervenissimo.
Quando
il campanello suonò andai ad aprire e mi trovai di fronte la
Sig.ra Smart , la psicologa dell'orfanotrofio, assieme a un uomo che
non
avevo mai visto.
“Buongiorno.
Che piacere vederla.” la salutai cordiale.
Ero
convinto che mi avesse portato i famosi fogli definitivi da firmare ma
la sua risposta mi colse di sorpresa e soprattutto mi lasciò
senza fiato.
“Sono
venuta a prendere i gemelli. L'adozione non è
valida” mi rispose
gelida mettendomi un foglio di carta in mano.
Rimasi
fermo, scioccato da quelle parole, mentre lei spingendomi da parte,
entrava in casa.
“Edward,
Alice venite subito qua!” ordinò loro a gran voce.
“Un
attimo” dissi agitato mentre leggevo la lettera.
Era
un istanza del tribunale di revoca dell'adozione!!!
“Come
è possibile?” chiesi cercando delle spiegazioni a
un atto che mi
sembrava completamente assurdo.
“Manca
il mio benestare. Loro non potevano essere dati in adozione. Le mie
colleghe hanno sbagliato. I gemelli non sono
a posto, hanno bisogno di essere seguiti da una persona esperta per
superare il trauma che li ha colpiti ” disse piantandomi i
suoi
occhi duri nei miei e sorridendomi cattiva.
In
un attimo intuii l'accaduto.
Il
colloquio avuto con la Direttrice e la Responsabile balenò
nella mia
mente. Lo avevano detto che lei non sarebbe stata d'accordo e avevano
provato a scavalcarla, a metterla davanti al fatto compiuto ritenendola
probabilmente inadeguata.
E
questa era la sua ritorsione.
Mi
sentii mancare la terra sotto i piedi mentre fissavo allibito quella
lettera con tanto di timbri e marche da bollo.
Alzai
gli occhi disperato e vidi che lei li aveva presi per mano e li stava
portando fuori verso la macchina dove quell'uomo la stava aspettando.
“Un
attimo... aspetti.” gridai cercando di fermarla
“stanno
migliorando... Stanno facendo progressi. Sono felici e sereni con
noi” dissi.
Volevo
convincerla, spiegargli che stavamo ottenendo dei risultati, che in
pochi giorni avevano fatto delle enormi conquiste e che solo
l'affetto di una famiglia avrebbe potuto aiutarli perché non
c'era
cura migliore dell'amore, ma lei mi fulminò con gli occhi.
“Quello
è un provvedimento giudiziale. Se ha qualcosa da dire lo
dica in
tribunale. Venite” disse, uscendo dalla porta con i miei
bambini
per mano che si guardavano spaventati e frastornati da
quell'irruzione inattesa, senza riuscire a capire cosa stesse
succedendo e il perché quella persona che conoscevano, e di
cui
evidentemente si fidavano, li stesse portando via.
Guardai
Esme disperato. Lei con gli occhi sbarrati dall'orrore, guardava i
due gemelli stringendo a se un Emmett spaventato.
Loro
intanto vedendo che li stava portando in macchina e realizzando
cosa stava succedendo, scoppiarono a piangere disperati, cercando di
sottrarsi alla sua presa ferrea.
“La
prego, mi ascolti.” la supplicai andandole dietro cercando di
farla ragionare, di farle capire che non era quello il modo. Che
potevamo parlare e magari trovare una soluzione. “ Ci
sarà un
modo per evitare tutto questo... Non vede come piangono? Facendo
così gli farà solo del male.” cercai di
fermarla.
Esme,
intanto mi raggiunse sulla porta e si appoggiò allo stipite
disperata.
“Signori
Cullen questo è un provvedimento legale. Non potete
opporvi... a
meno che non vogliate che chiami la polizia” ci disse
girandosi
verso di noi e sorridendo soddisfatta della sua rivincita.
Maledetta!!
Il suo orgoglio ferito stava aprendo una ferita immensa in tutti noi
e soprattutto stava facendo del male a loro.
“Faremo
ricorso al tribunale. Ce li faremo ridare. Farò di tutto per
riportarli a casa e, tutto questo, sarà stato solo
dolorosamente
inutile” le risposi sperando che cambiasse idea vedendo la
mia
determinazione.
Ma
mentre parlavo mi resi conto che ci sarebbe voluto tempo, che una
causa sarebbe durata mesi forse anni pensai sconvolto.
Ci
aveva messo con le spalle al muro. Aveva agito sapendo di poterlo
fare, sicura che il tribunale avrebbe dato retta a lei non certo a
noi.
Intanto
lei, indifferente alle mie parole e al loro pianto, era arrivata alla
macchina e aprendo la portiera fece entrare di peso Alice sul
sedile posteriore mentre il suo accompagnatore prendeva posto al
volante.
La
mia bambina piangeva disperata con gli occhi dilatati dalla shock
mentre ancora una volta veniva strappata via dalla famiglia.
Edward
era girato verso di noi. Gli occhi verdi pieni di lacrime e di
terrore.
Poi
con uno strattone improvviso, complice la distrazione di quell'arpia
con Alice, si liberò il polso e come un fulmine si
precipitò fra le
braccia di Esme saltandole in braccio.
“Edward
vieni qua” la sentii gridare mentre imprecando per quella
ulteriore
complicazione tornò sui suoi passi dopo aver chiuso la
portiera
per impedire la fuga di Alice.
“Vi
prego. Vi prometto che mangerò da solo, che
dormirò nel mio letto,
che farò il bravo e ubbidirò ma non voglio
tornare là. Noi
vogliamo stare con voi. Ti prego mamma, non ci abbandonare. Non
lasciare che ci portino via”
Mi
voltai a guardarlo incredulo con gli occhi lucidi di lacrime per la
sua accorata preghiera.
Aveva
parlato! Edward per la prima volta aveva parlato! Sotto l'influsso
della paura di perderci aveva trovato nuovamente il coraggio di
parlare.
Rimanemmo
tutti un attimo sconvolti e stupiti, compresa la psicologa.
Il
mio bambino aveva parlato e lo aveva fatto per rimanere con noi, per
chiederci di non lasciare che lo portassero via, chiamando Esme per
la prima volta mamma.
“Ha
parlato” dissi alla Psicologa, sperando che capisse
l'importanza
dell'avvenimento “Non sente che ha parlato! Lo lasci stare la
prego. Li lasci con noi” tentai straziato da quello che stava
accadendo. Ma con orrore, senza degnarsi di rispondermi, lei
imperterrita, sorda alle sue parole e al mio supplicare, lo
afferrò
per le ascelle cercando di strapparlo via dalle braccia di Esme.
“Lo
lasci andare subito. Altrimenti chiamo la polizia e voi non li
rivedrete mai più. ” sibilò furiosa.
Aveva
ragione. Non potevamo opporci, rischiavamo di perderli
definitivamente se fosse dovuta intervenire la polizia.
Se
avessimo ceduto avremmo potuto fare ricorso, altrimenti... il mio
cuore si rifiutò di finire la frase mentre dissi con un
sussurro
angosciato “Esme. Lascialo andare. Non possiamo fare nulla
ora”
Lei
aprì le braccia come un automa e la psicologa prese con
forza
Edward fra le sue e lo posò a terra serrandogli il polso con
decisione per impedirgli di fuggire nuovamente.
“Un
attimo. La prego solo un momento” le dissi con le lacrime che
scendevano dal mio viso.
Lei
si fermò ed io feci un passo avanti verso di lei, mi
inginocchiai e
allungai le mani abbracciando stretto per un attimo il mio bambino,
poi mi scostai e gli asciugai le lacrime con le mani “Ewdard.
Ascoltami.” dissi cercando di sembrare tranquillo e sicuro
“Devi
andare con lei. Non ti opporre, non scappare. Non possiamo fermarla,
non adesso. Ma ti prometto che ci batteremo con tutti i mezzi
possibili per farvi ritornare a casa. Siete dei bravi bambini e vi
vogliamo bene, ma adesso devi andare con lei e con Alice, tua
sorella ha bisogno di te, ha bisogno di averti vicino. Non puoi
lasciarla sola.”
Lui
mi guardava serio con le lacrime che scendevano copiose poi si
girò
guardando Alice che chiusa in macchina piangeva e lo chiamava
disperata da dietro il finestrino.
“Va
bene papà.” mi sussurrò risoluto e,
apparentemente tranquillo, diede la mano alla psicologa dandoci la
schiena e avviandosi verso
la macchina a testa bassa, stringendosi al petto il suo peluche che
non aveva mollato un attimo.
Quel
mostro di donna rimase un attimo interdetta poi si affrettò
ad
avviarsi.
“Li
riavremo. Le prometto che farò di tutto. Non finisce
così.” gli
gridai dietro abbracciando Esme che era rimasta impietrita sotto
shock.
Erano
già arrivati dallo sportello della macchina che Edward si
liberò
nuovamente con uno strattone improvviso e ci corse incontro
sorprendendo tutti.
Si
fermo a pochi centimetri da Emmett, si asciugò le lacrime
con la
manica e gli porse la sua tigre.
“Tieni.
Dove vado io Tigro non starà bene. Quello non è
un posto adatto a
lui. Occupatene tu per favore” disse serio e accorato.
Vidi
Emmett tendere le braccia e prendere il pupazzo “Si chiama
Tigro?”
gli chiese con la voce rotta anche lui dalle lacrime.
“Si.”
rispose semplicemente Edward.
“Mi
occuperò di lui. Non temere... fratellino” e
rapido si abbracciò
Edward.
Lui
ricambiò l'abbraccio. Si asciugò nuovamente le
lacrime e gli
sorrise “Grazie Emmett. Ora devo andare da Alice.”
e serio, dopo
aver dato un ultimo bacio al suo peluche, si girò per
tornare alla
macchina.
I
suoi occhi verdi, lucidi, carichi di lacrime furono le ultime cose
che vedemmo quando la macchina partì.
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